di Barbara Aimar
Cambiano le mode, ma l’arte non è una moda; è creatività in grado di manifestarsi attraverso trasformazioni inarrestabili, è un percorso di ricerca ‘in progress’, è conquista dello spazio a disposizione, è…conoscenza e capacità, ogni volta, di distruggere gli schemi propagandistici degli stili ‘in corso’, per esternare ed esprimere liberamente la propria fantasia. Antonio Carena, nato nel 1925 e sempre vissuto a Rivoli, era un personaggio eccezionale, con una vitalità ed un’ironia unici, un portamento da vent’enne controcorrente affiancato dalla capacità di trasmettere gioia di vivere e amore per il “discettare d’arte”. Artista con la A maiuscola, è sempre vissuto abbastanza vicino a Torino per poterne esaminare i fermenti culturali e sufficientemente distaccato per essere in grado di valutarla con quell’ironia bastevole per non lasciarsi coinvolgere da situazioni troppo forti o dubbie.
Antonio Carena, all’interno della generazione di artisti che si è formata nel difficile dopoguerra italiano, in una Torino allora unita nell’ideologia della “ricostruzione”, dopo un’iniziale pratica decorativa all’interno della sua famiglia, iniziò gli studi all’Accademia Albertina e scelse la Scuola di Pittura tenuta da Enrico Paulucci aperta al colorismo fluido e vibrante. Già nel 1949 Carena partecipò alla “I Mostra Art Club Internazionale”, un’importante rassegna itinerante presentata da Albino Galvano a Palazzo Carignano, che poneva in relazione gli artisti torinesi con quelli scelti dagli organizzatori-Prampolini, Beck, Batiss e Jarema a Roma-e presentava, tra le altre, opere di Burri, Turcato, Spazzapan, Dorazio, Severini, Sironi.
Già in questo primissimo periodo, la pittura di Carena superava fortemente le declinazioni neocubiste in auge e si dirigeva verso un’astrazione a impianto strutturale ampio e spaziale, a stesure cromatiche scure, con cadenze vicine a Soulages. Invitato, appena venticinquenne, alla XXV Biennale di Venezia del 1950, vi espose La Finestra del 1949. In quegli anni veniva a contatto con le recenti ricerche dell’action painting nordamericana e recependone pienamente le innovazioni, esponeva nel 1951, al “Premio Dino Uberti” all’Accademia Albertina, le prime Grate nere che caratterizzavano la crisi esistenziale del 1950-’53. Già allora emergeva la volontà da parte dell’artista di lasciar affiorare “ciò che si vedeva attraverso” e la volontà, non ancora esplicita ma forte, di voler ‘scardinare’ i luoghi comuni, i dettami.
Fu Michel Tapié, quale segno di stima per il giovane artista, a scrivere il testo di presentazione per la sua seconda mostra nel 1959. Questa rappresentò una svolta nell’ operare dell’artista perché divenne protagonista dei suoi quadri una stesura pittorica a luminosità diffusa e dinamica increspata da sottili e leggere aggregazioni di sabbia, una tipologia informale piuttosto anomala nel panorama torinese e nazionale. Il critico francese, che dichiarava la necessità di un’esperienza nuova, rilevava come i dipinti di Carena proponessero un ordine possibile, in sintonia con i nuovi postulati, mediante una nuova dimensione costruttiva.
Anche Albino Galvano nel 1960 esprimeva parole di grande stima per Carena: “… Antonio Carena è […] una delle forze più valide tra i giovani a Torino e in Italia. Spirito tormentato, introverso, tutt’altro che pacificato con se stesso dal successo, Carena esterna sino al limite dell’inesprimibile questa chiarificazione “puristica del linguaggio nei suoi quadri… apparentemente spinti sino alla pagina bianca”.
I primi anni Sessanta poi, coincidono con la sua personale ricerca di superamento della pittura che lo conduce verso l’interesse alla dimensione oggettuale del manufatto artistico, enfatizzata dal clima della nascente pop americana.
Carena si colloca tra i primi artisti italiani che hanno lavorato sul prelievo di parti dell’oggetto desunto dall’ambiente urbano e industriale, mettendone a fuoco il dato speculare.
Egli sostituisce la superficie della tela con parti di carrozzeria resa speculare; “non dipinge più” ma presenta e osserva gli eventi che si riflettono deformati sulla superficie dell’oggetto industriale, in paritetica integrazione con il reale.
Quest’operazione è portata avanti dalle Pellicole del 1964.
La scelta formale della pellicola – la cui funzione è quella di catturare automaticamente l’immagine – qui ridefinita a oggetto gigantesco, rivela ancora una volta l’interesse di Carena per tutto ciò che appartiene al campo della rifrazione della luce. Dipingendola a nitro speculare, ne sposta la funzione, che diviene quella di riflettere le immagini nell’ambiente. Molto importante in quel periodo la stima e l’amicizia di Fontana (grande conoscitore di giovani talenti …lettera Fontana…
Il 1965 è l’anno dell’invenzione dei suoi magnifici Cieli, trompe l’oeil dipinti con l’aerografo su lamiera. Un percorso esemplare e isolato dopo quindici anni di intenso lavoro passato attraverso le problematiche dell’Informale internazionale: cieli “più veri del vero”, iperrealisti ante-litteram, di perversa e vertiginosa bellezza magrittiana, da godersi nella dimensione urbana, nel chiuso delle stanze cittadine.
Il tema del “cielo” diventa il leit-motiv ossessivo e ammiccante del suo lavoro, che conia per le sue immagini i neologismi: “cielismo”, “cielagione”, “nuvolare” e altri, avvalendosi “della vocazionale tecnica del carrozziere verniciatore”… Così con la luce e il colore trasmessi sulla tela attraverso un pennello ad aria, Carena va a creare l’artificio dell’”oggetto cielo in primo piano”, in grado di attrarre emotivamente l’osservatore.
Antonio Carena ha “incielato” i palazzi di mezza Europa, dove ha esportato il suo talento, e realizzato progetti con e per importanti realtà nel corso degli anni. Ha affrescato i soffitti all’Accademia delle Belle Arti di Torino, ha decorato un edificio Martini & Rossi a Ginevra, la Biblioteca di Palazzo dei Marchesi Spinola nonché le volte del Ministero dei Beni Culturali di Parigi, quelle del ristrutturato Castello juvarriano di Rivoli e collaborato con la Fiat per la copertura del soffitto nella sede romana. Ha realizzato opere d’arte di diverse dimensioni che hanno partecipato a mostre ed eventi internazionali aggiudicandosi premi prestigiosi ed ha affiancato ciò con l’impegno come docente al liceo artistico prima, all’ Accademia di Belle Arti di Cuneo poi.
Il cielo di Antonio Carena che sovrastava lo scalone del Castello di Rivoli però, realizzato dall’artista nel 1984, parte integrante del restauro compiuto dall’architetto Bruno, è stato coperto nel 2005 per lasciare posto ad un’istallazione temporanea ma mai ri-scoperto. Ciò nonostante le proteste e le sollecitazioni delle autorità contro una decisione che il Museo pare non avrebbe potuto prendere rispetto all’opera che non faceva parte della collezione ma era elemento del restauro. Ad oggi il cielo di Carena è ancora oscurato…
Carena presentava poi alcune provocatorie vedute oleografiche del Cervino su cieli percorsi da tagli, riquadrature e sezioni. “Catturava”, “impacchettava”, “tagliava a fette”, “ritagliava” in cornici e “racchiudeva” o inscatolava in cubi di plexiglas le sue porzioni di Cieli. Il giorno dell’inaugurazione della sua personale presso la galleria in via Principe Amedeo, nel 1967, a fronte dell’ingresso, aveva parcheggiato una “500” completamente dipinta “a cielo” che prolungava nella dimensione urbana l’assunto della mostra.
Dopo il Cielo o finestra spalancata sulla parete, Carena passava nello stesso anno 1970 ai Cartelli. Il quadro diveniva segnale: un grande cartello con asta, dove impugnando il “pennello d’aria” vi scriveva Parole Parole Parole, o con la consueta ironia, Vogliamo Cieli Puliti, Attenzione Pittura Fresca e Immagina un po’ quello che vuoi.
La serie bellissima delle Scritte dal 1971 a oggi per lo più verte su soggetti di massa, dalla droga al sesso, la cui titolazione è sempre condotta da Carena con finissima ironia. Titolazione opportuna, in quanto le superfici pittoriche si presentano come labirinti di luce e di colore, corpi mobili e pulsanti di difficile decifrazione, dove le lettere sono giocate su sfasamenti e ambiguità percettive di tipo ipnotico, la cui linea continua, eseguita con la velocità tipica dei graffiti urbani, si aggroviglia in nodi ondulanti e serpentini’; nodi (o buchi neri) che punteggiano la superficie quasi fluorescente.
Carena è colui che ha deciso le distanze, di se stesso con il mondo e di se stesso con il cielo. Che lo si ricordi nel suo “giardino-studio” con set di pistola a spruzzo e compressori intento a vaporizzare nuvole, o in uno storico palazzo ad affrescare le volte, non si deve dimenticare ciò che provocatoriamente diceva: “Amo nuvolare per denunciare che il cielo la smetta di imitarmi”. Carena ha costruito un percorso che ha dato ascolto alle sue corde interiori. E’ vissuto onestamente ed ostinatamente fuori dai dettami accademici, la sua interpretazione del mondo è stata antipittorica, soprattutto per gli strumenti usati; ha unito argutezza di pensiero e motteggi verbali a scelte pittoriche calibrate e personali. Anche per questo è uno dei più importanti esponenti dell’arte italiana del Novecento.