Quando la «500» ispira poesia
Le opere di Antonio Carena a Palazzo Graneri
La Fiat 500 «celeste» nell’atrio di Palazzo Graneri è ottimo viatico per l’antologia di Antonio Carena al Circolo degli Artisti, fino all’11 dicembre (catalogo Charta, a cura di Mirella Bandini). Simboleggia al meglio i giochi irrispettosi del settantenne irriducibile campione dell’avanguardia, con la sua aria impenitente di ragazzo invecchiato – un Warhol pedemontano -, dalle metafore poetiche di luce e colore alla durezza dell’artificio meccanico ed elettronico, dalla carrozzeria alla scrittura psichedelica.
Nel decennio d’inizio, dal 1948, le strutture cupe, a sbarrature nere, cineree, violette -memorie personali e polemiche del clima e del gusto «Francia-Italia» -,poi gli impasti stregoneschi di materie brune, ocra, rosse bruciate, sabbiate, incollate non spengono del tutto un sotterraneo guizzare di luce poetica.
È un percorso nello stesso tempo di solitaria introversione e di aperture precoci e di largo respiro, che gettano ponti dal Mac torinese agli Usa, dal Fontana spazialista e nucleare dei primi Anni 50 a Burri.
Nel felice allestimento curato da Marisa Coppiano, le cupezze meditate e preziose di questa prima fase stringono d’assedio nel salone una sorta di fortino centrale che ospita invece – ed è tutto il contrario di un assedio – l’epifania straordinaria, 1958-1961, del diapason luminoso e dell’espansione lirica dei Cieli e dei Ghiacci. Rotte le sbarre del primo decennio, le attenzioni a Burri e Fontana e la consonanza – in un livello di cultura americana in cui Torino anticipa Roma e Milano – con le gioie cromatiche di Sam Francis, rispetto agli interessi dei compagni torinesi della stessa generazione verso l’espressionismo di De Kooning e Gorky, si traducono in una personalissima sensualità della pellicola pittorica, in cui l’amor di pittura si avvicina al limite e talora alla metafora dell’atto erotico e dei suoi punti focali.
Anche se alcune opere del 1959 dimostrano una possibilità di sublimazione «zen» – sono gli anni delle presenze tori.nesi di Tapié e dei Gutai -, la lucidità loica e dissacrante di Carena avverte il pericolo di questo limite, di questo abbandono sensuale anche se sotto il controllo e il filtro di un «mestiere» di altri tempi e climi. Il giocoliere, nella nuova stagione della Pop Art, del «Nouveau Réalisme», dell’oggettualità meccanica degli Anni 60, compie il suo più straordinario esercizio senza rete: rimanendo fedele a se stesso, al suo amore per la luce scorporante il colore fino all’infinito spaziale dell’azzurro celeste e al contraltare di questo amore, la razionalità antiromantica dell’operazione creativa, Carena mette letteralmente in scatola e modella sulla catena di montaggio e sotto la pressa questa luce celeste.
Nelle due sale successive si sussegue il trentennio di Carrozzerie, di Pellicole, di varianti dei celebri Cieli; un trentennio inizialmente durissimo, «cool», di vera e propria «poesia industriale». poi via via sempre più aereo, trasparente, illusorio, fino a sfondare tiepolescamente verso l’infinito un soffitto di Rivoli. In parallelo, l’atrio ospita la sequenza dal 1970 fino ad oggi delle Lievitazioni e Scritte, meditazione concettuale sulla comunicazione ottica come vera e propria droga, affascinante quanto inquietante.
Carena mi ribadisce il suo assoluto rifiuto della pittura come «messaggio», ma quella sequenza, proprio attraverso il suo progressivo e crescente fascino cromatico, mi sembra corrispondere a paure molto attuali.
[m.r.]LA STAMPA – Lunedì 24 ottobre 1994