Dalle Carrozzerie ideate da Antonio Carena nei primi Anni Sessanta – ed erano semplici trance metalliche di portiere d’automobile sulle quali, col colore a spruzzo, l’artista aveva fissato lo smaltato riflesso di azzurri cieli nubilosi – fino ai Cielifrantumati dell’89 e alle Arie dell’anno scorso, sono circa trent’anni d’uno dei più originali artisti italiani emersi nel dopoguerra.
Un periodo che costituisce il tratto più ampio della vicenda, vocazionalmente trasgressiva, del pittore che, a Rivoli, dov’è nato nel 1925, ha pur avuto modo di fingere uno dei famosi suoi cieli, proprio sull’ampia volta dello scalone del Castello. A Torino viene ora riproposto da un’ampia mostra della «Nuova Gissi» che (fino al 10 febbraio) l’accoglie negli stessi ambienti in cui sono passati l’astratto lirismo di Afro e le tridimensionali finzioni di Vasarely.
Uscito dall’Accademia Albertina, nel primo dopoguerra, ottenendo come miglior diplomato il Premio «Dino Uberti», mentre al concorso delle Accademie di Belle Arti, a Napoli, aveva vinto il premio «Cattedra di Pittura», Carena non tardò ad alzare il tiro, passando da un’aspra visione paesistica (cui non aveva esitato ad affidare il suo messaggio contestatario) ai cieli sottilmente materici, d’un colore sabbiato, attraverso i quali scoprì il gusto di certi materiali sino allora impensabili in un quadro: come le lamiere sagomate sotto vernici e smalti a spruzzo, Tole – (latte) in buon piemontese – e non soltanto tele o legni, reti metalliche, perspex e marquisettes fino ai multistrato sintetici.
Ad un certo punto gli era sembrato di dover rinnovare radicalmente la concezione stessa del quadro, e fu quando trasformò la sua «personale» alla galleria Il Fauno di Torino in una manifestazione all’aperto, con sfilata di cartelli bianchi nella vicina piazza Carlo Alberto, ai piedi del monumento.
Era stato, il suo, un voler ripartire da zero. Ma con un carico di ironia e di tangibili, taglienti, durezze in un’intera serie di Trance (1984), cui seguirono le Frantumazioni, veri e propri collages di lembi di cielo, incastonati in terra e cemento. Riprese anche le antiche lamiere fattesi rugginose e, tra natura e artificio, le ricuperò aggiungendovi il segno del tempo, come un fattore nuovo.
Ma andò perfino al di là dell’arte povera con la sua «arte-spazzatura» (protagonisti i Rimasugli) per contestare ogni compiacimento lirico, e quasi per esorcizzarlo come male. Ma senza negarsi, nell’87, all’oggetto pittorico, qual è il superbo Scudo Masai (già esposto all’Unione Culturale). Una composizione, questa, che non fa pesare la sua complessità strutturale coinvolta, dalla severa ideazione creativa attraverso una straordinaria aggregazione di elementi diversi: con progressivi, meditati innesti, nell’ambito di un chiaro progetto formativo, nel quale il rosso-masai è da cercarsi nello spessore dei bordi slabbrati, come può essere soltanto d’una presenza colma di esistenziali rispecchiamenti.